martedì 30 giugno 2015

Leopardi Giacomo, Poesie e Prose

Giacomo Leopardi è uno dei più grandi poeti italiani della modernità. La sua voce si innalza dal remoto Ottocento per rivolgersi, sempre moderna e attuale, a noi contemporanei. In un certo senso, si potrebbe persino affermare che la poesia italiana di oggi non sarebbe quella che è, senza la grandezza di Leopardi; il che, però, ha portato a considerare come assoluti della poesia, alcuni modi di concepire l’atto poetico che rispondono più a una poetica personale o “socioculturale”.


Nonostante L’infinito sia una delle poesie più romantiche di Leopardi, è pur vero che in lui la matrice neoclassica è determinante. Probabilmente perché nella polemica classico-romantica, soprattutto in Italia e in Grecia, si è avuta una sovrapposizione di stili in cui l’impronta classica non è mai stata abbandonata del tutto. Del resto, come si poteva farlo?, visto che le nostre origini e le nostre radici affondano proprio nella romanità e nella grecità più classica; a differenza di altri popoli come gli inglesi, i francesi, i tedeschi, e persino gli spagnoli. Questo, a mio avviso, ha portato a un equivoco: ovvero che non esiste altra poesia se non quella che deriva da un canone ben determinato che in Italia va riproponendosi dall’epoca dei greci e dei romani, fino all’umanesimo, al rinascimento, al manierismo, all’illuminismo, al neoclassicismo otto-novecentesco (soprattutto di certo simbolismo e decadentismo di stampo francese). Piatti diversi per riproporre un unico concetto di poesia.
Tuttavia, una traiettoria diversa, si è compiuta, per esempio, in Spagna, dove le origini della poesia in volgare, sono connesse ai Romance di epoca medioevale, più vicina alla tradizione ispano-gota rispetto a quella romana: la stessa differenza che in architettura si può apprezzare tra un arco gotico e uno romanico.
In Italia abbiamo una forte tradizione classica, che tocca uno dei suoi massimi vertici con Giacomo Leopardi, ma questo rimane solo un modo, uno dei tanti modi di fare poesia.
Silvia, rimembri ancora
Quel tempo della tua vita mortale,
Quando beltà splendea
Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
E tu, lieta e pensosa, il limitare
Di gioventù salivi?
Il ritorno alle origini di García Lorca, invece, lo ha portato più che alla tradizione classica, a quella medioevale-gotica, e a quella flamenca-zingara, come in questa Romanza alla luna luna.
La luna venne alla fucina
col suo sellino di nardi.
Il bambino la guarda, guarda.
Il bambino la sta guardando.
Nell’aria commossa
la luna muove le sue braccia
e mostra, lubrica e pura,
i suoi seni di stagno duro.
Fuggi luna, luna, luna.
Se venissero i gitani
farebbero col tuo cuore
collane e bianchi anelli.
Nicolás Guillén, un afro-cubano degli inizi del secolo, invece si avvicina alla poesia, attraverso la riscoperta delle radici africane e della tradizione legata alla santeria cubana.
Ti vidi passando, una sera,
ebano, e ti salutai:
duro in mezzo a tutti i tronchi,
duro in mezzo a tutti i tronchi,
il tuo cuore ricordai.
 Arará gerla,
arará sabalú.
Una tradizione afro, stavolta legata al Blues, e a quell’America nera che tutti noi amiamo, è presente in W.H. Auden, La verità vi prego sull’amore.
Quando viene, verrà senza avvisare,
proprio mentre mi sto frugando il naso?
Busserà la mattina alla mia porta,
o là sul bus mi pesterà un piede?
Accadrà come quando cambia il tempo?
Sarà cortese o spiccio il suo saluto?
Darà una svolta a tutta la mia vita?
La verità, vi prego, sull’amore.
In questi tre poeti, notiamo l’importanza del legame tra la poesia e il canto; cosa che nella tradizione
letteraria italiana si è totalmente perso di vista (anche se Dante cantava o faceva cantare i suoi sonetti e i suoi madrigali); a causa, probabilmente, del notevole rilievo che la tradizione scritta ha acquisito dall’umanesimo in poi. Questo ha portato, soprattutto nei poeti italiani che più si rifanno al neoclassicismo, a una musicalità, a un sound intimo se non intimista dato dall’aggiustarsi del ritmo del verso a un respiro modellato dalla riflessione e dalla lettura, più che dall’ascolto, dal canto o dalla declamazione. Questa peculiarità, tecnica, consente di dire che in Italia, ad esempio, non esistano poeti Beat propriamenti detti. Basta confrontare l’urlo di Ginsberg,
Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate della mia nude isteriche,
trascinarsi per strade di negri all'alba in cerca di droga rabbiosa,
hipsters dal capo d'angelo ardenti per l'antico contatto celeste con la dinamo stellata nel macchinario della notte,
che in miseria e stracci e occhi infossati stavano su partiti a fumare nel buio soprannaturale di soffitte a acqua fredda fluttuando sulle cime delle città contemplando jazz,
che mostravano il cervello al Cielo sotto la Elevated e vedevano angeli Maomettani illuminati barcollanti su tetti di casermette
che passavano per le università con freddi occhi radiosi allucinati di Arkansas e tragedie blakiane fra gli eruditi della guerra, […]
 con una poesia di Antonio Veneziani.
Tutto quel bruciare
fu una maledizione
presto trasformatasi in tormento.
Prigioniero afflitto giro per le strade
e l’aria non è più mia.
Tornato a casa, sul letto sgualcito,
si stende carezzevole
una schiena nuda.
Dall’angolo, come sortilegio,
viene una voce simile alla tua.
Tornando a Leopardi, il suo pessimismo cosmico, non è solo estremamente suadente, ma ha convinto e convince tutt’ora centinaia e migliaia di lettori. Certamente, il fatto di essere usciti da due guerre mondiali per avere imboccato la strada dell’incubo atomico e del terrorismo religioso ha prodotto nel lettore moderno una certa affinità con le parole di Leopardi. Quindi, quando si legge Eugenio Montale, per esempio:
Spesso il male di vivere ho incontrato
era il rivo strozzato che gorgoglia
era l'incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
 Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
In realtà, non si può non pensare a una riscrittura di matrice leopardiana:
 O forse erra dal vero,
Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:
Forse in qual forma, in quale
Stato che sia, dentro covile o cuna,
E' funesto a chi nasce il dì natale.
Tuttavia, i poeti, per fortuna, possono parlare anche di altro, non solo del male di vivere. In Italia, abbiamo una ricca tradizione goliardica che parte da Cecco Angiolieri per arrivare a Pietro Aretino o
Luigi Pulci, tanto per fare qualche nome. È pur vero, però, che in epoca moderna (forse dovuto agli accadimenti storici cui si faceva riferimento), è un po’ come se la letteratura avesse perso la capacità di ridere. E non parlo dell’ironia (ovvero della capacità, detto volgarmente, “di prenderla con filosofia” ovvero “di ridere di una sfiga tremenda che ti è appena capitata”), ma di “ridere per il gusto di ridere”: goliardia, umorismo.
Questo, non avviene, per esempio per i paesi di America Latina di lingua spagnola, in cui la tradizione cervantina è ben presente. Del resto un paese che si rispecchia in Leopardi difficilmente potrà capire fino in fondo l’umorismo acido, ma anche bonario, di un Miguel de Cervantes (e forse, se vogliamo fare confronti, nella storia è un po’ più grande Cervantes di Leopardi…) che lui, sì, rideva per il gusto di ridere e far ridere e non solo di fronte ai mali della vita.
Ma volle la sorte che in quel momento passasse di là un contadino del suo paese e vicino suo, che tornava dal mulino dove aveva condotta una soma di grano. Vedendo egli un uomo steso in terra a quel modo, se gli fece dappresso, gli domandò chi fosse, e che male avesse, che tanto si lamentava. Don Chisciotte credette senza alcun dubbio che colui fosse il marchese di Mantova suo zio; però invece di ogni risposta proseguì la romanza colla quale lo informava della sua sventura e degli amori del figlio dell'imperatore con la sua sposa, nel modo appunto che si canta nella canzone. Il contadino meravigliato di quelle stranezze, gli levò la visiera, già pesta dalle percosse, e si diede a nettargli la faccia ch'era tutta coperta di polvere; né gliela ebbe appena nettata che subito lo conobbe, e gli disse: “Signor Chisciada (così soleva chiamarsi quand'aveva buon giudizio, e prima di cambiarsi da tranquillo idalgo in cavaliere errante), chi trattò per tal modo vossignoria?”.
Leopardi è uno dei più grandi scrittori italiani di sempre. Per fortuna non è il solo. E per fortuna il suo non è l’unico modo di intendere né la poesia né la scrittura. Altrimenti, oltre a Leopardi, avremmo migliaia di altri leopardini. Invece di Giacomo Leopardi ce n’è uno, solo, grande, potente, cosmico.

Del resto, l’universo, come affermava Giordano Bruno, è fatto da infiniti mondi.

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