Personalmente, ho letto troppa letteratura per ritenere che
un codice alfa-numerico possa decretare il successo di un libro. Infatti, la mera registrazione
di un testo all’”anagrafe dei libri” non garantisce nulla sua qualità; inoltre,
considerare “degne di nota” solo le pubblicazioni “ufficialmente riconosciute”,
per chi ha letto Hannah Arendt, Franz Kafka o Primo Levi… vuol dire entrare
coscientemente in quell’assurda spirale umana che tenta di dominare
l’indominabile con griglie e reticolati, inutili, arbitrari e spesso anche demoniaci... i quali, in fondo, nulla hanno a che fare con la letteratura o con la poesia,
nei loro significati più elevati.
Lo stesso si può affermare di taluni critici, o presunti
tali, che, forse preoccupati da una possibile concorrenza incontrollata e incontrollabile di “nuova
poesia”, sembrano scordare, quasi di proposito, che l’arte, quando è vera arte, è sempre sovversiva, perché modifica le
categorie attraverso cui noi concepiamo il mondo. Quindi, non deve disturbare,
se anche il formato e non solo la forma o il contenuto, di un libro, può essere sovversivo. Nel Novecento, del
resto, abbondano gli esempi: dai manifesti delle avanguardie, alle riviste ciclostilate;
dalle poesie “faxate” agli ebook, fino al ritorno al libro come oggetto d’arte
in sé.
L’arte e la poesia in particolare esplorano ogni forma
immaginabile, perché, in fondo, sono proprio questo: la vetta sublime
dell’immaginazione.
Pasto Vergine di
Alessia D’Errigo è un libro di poesie immaginifiche, veri e propri impulsi elettrici che
prendono forma sotto i nostri occhi per colpire cuore e cervello, restituendoci
il frammento di un assoluto che vive in un qui e ora.